Italiano, Romance

Il Senza Nome [Anteprima]

Questa è un’anteprima del romance storico Il Senza Nome.

La versione completa è disponibile su Amazon, in edizione cartacea e in ebook.


Prologo

La luce della candela tremolò all’aprirsi della porta.

Davit sollevò gli occhi. Davanti a lui una figura dal volto coperto, le cui forme rivelavano inequivocabilmente un corpo femminile.

«Come sei entrata?» le chiese, afferrando l’elsa della spada.

«Non mi hanno visto, tranquillo» lei si tolse la tela grezza dalla testa mostrando un viso giovane, profondi occhi neri, capelli scuri che le scendevano in onde lungo la spalla sinistra. Indossava una semplice tunica, chiunque l’avrebbe scambiata per una popolana.

Davit alzò un sopracciglio, riconoscendola. Stava per dire qualcosa, ma lei lo anticipò.

«Tu sei il figlio del Senza Nome?» lo sapeva, non sarebbe stata lì altrimenti, ma lo chiese lo stesso.

«È così famoso mio padre tra le genti armene?»

«La sua vera storia è una leggenda segreta che solo in pochi conoscono» fece qualche passo verso di lui, sorridendo.

«Che ci fai qui? Se qualcuno ti vedesse sola con un uomo…»

«Sto per andare sposa al dynatoi di queste terre.»

«Questo lo so.»

«Mi conosci?» inclinò la testa da un lato mentre lo chiedeva, rendendo la sua figura ancora più graziosa.

«Anahit, ultima erede dei principi Taroniti. Ti conosco. Ti ho vista arrivare con la tua carovana.»

Lei rise. «Siamo solo un branco di nomadi senza terra.»

Lui posò la spada accanto al suo giaciglio e le prestò maggiore attenzione. Seduto su uno sgabello, gli avambracci poggiati alle cosce, gli occhi scuri puntati su di lei. Occhi profondi e misteriosi, li aveva ereditati da suo padre, insieme all’appellativo di Senza Nome. Anonymos, lo chiamavano nella lingua di Costantinopoli.

«Beh, adesso le cose stanno per cambiare» riprese lui, dopo essersi soffermato sulla sua figura più del dovuto. «Questo matrimonio ti farà entrare nella famiglia dello Strategos del Thema di Taron, diventerai una donna ricca. Finalmente la tua gente riavrà le sue terre.»

«Le nostre terre» lo corresse lei.

Stavolta fu Davit a ridere. «Il mio sangue armeno è molto diluito. Per quanto ne so potrei essere un curdo o il figlio di una cagna. Persino un romano.»

«Parli il greco?»

«La Signora Irene me l’ha insegnato.»

«La madre del mio futuro sposo? Non trovi sia strano?»

Davit scrollò le spalle. «La gente ricca fa un sacco di cose strane. Lei soprattutto.»

«Conosci anche tu la sua storia?»

«In parte. Non mi è mai interessata molto. Sono solo un uomo d’armi» fece una pausa rendendosi conto di quanto si fosse perso nella conversazione e avesse scordato della sconvenienza di quelle circostanze. Riprese il filo. «Ancora una volta: che ci fai qui?»

«Ho un debito di sangue con te.» Lei fece un altro passo, slacciandosi la veste. Il tessuto ruvido scivolò sulle sue forme, fino a toccare terra, svelando il corpo nudo, la pelle liscia, le forme esaltate dal gioco di chiaroscuro della candela.

Davit deglutì, completamente spiazzato. «C-che stai facendo?»

«È la mia ultima notte da donna libera» Anahit si piegò su di lui, accarezzandogli il viso ruvido con le sue mani piccole e graziose. Gli sussurrò a poca distanza: «devo saldare questa promessa, per l’onore della mia stirpe.» Il suo alito sapeva di spezie, era caldo come l’aria del deserto.

Posò le labbra sulle sue, morbidi boccioli di fiori selvatici.

Davit si sentì sopraffatto.

Le mani di lei scivolarono leggere sul suo petto. Anahit gli si inginocchiò davanti e lui la lasciò fare. Un uomo non si sarebbe mai tirato indietro, non avrebbe disonorato una donna con il rifiuto.

«S-sei vergine?» le chiese, mentre lei iniziava a spogliarlo.

Anahit alzò lo sguardo su di lui e fece solo un sorriso che voleva dire tutto o niente.

«Mi ammazzeranno per questo» sospirò Davit, e poi si chinò su di lei, afferrandola e sollevandola. La prese in braccio e la stese sul letto. «Ma sarà un buon modo di morire.»

Si tolse la casacca, mostrando il petto tonico, temprato dall’addestramento militare, e si abbassò su di lei.

«Che state facendo voi due?» sibilò una voce adirata, in seguito allo spalancarsi della porta.

Davit scattò in piedi, e istintivamente corse ad afferrare la spada.

Quella che era appena entrata era una donna di mezza età, con i capelli corti e lo sguardo severo. Davit conosceva anche lei: era Lorik, la madre di Anahit.

Lui si mise in mezzo, come per coprire la ragazza. Non disse nulla perché non sapeva cosa dire. Una goccia di sudore gli colò dalla tempia.

«Siete due sciagurati!» continuò Lorik. «Queste cose… qui a due passi dalle residenze degli Aaronios… volete mandare tutto all’aria? Sono vent’anni che la nostra gente aspetta questo momento, non possiamo rischiare tutto quanto per una… una bravata giovanile.»

Anahit era balzata dal letto ed era corsa a recuperare i suoi abiti per rivestirsi in fretta e scompostamente. «Madre, mi dispiace… io…»

«Zitta. E spera che nessuno ti abbia visto. E spera che tuo padre non venga a sapere di tutto ciò. E soprattutto spera che non lo sappiano gli Aaronios. Cosa credi che penserebbe il tuo futuro marito? Sei sempre stata un’incosciente…» Lorik si portò una mano alla tempia, come per un mal di testa improvviso, poi tornò a rivolgersi a Davit. «Quanto a te… sei uguale a tuo padre» sospirò. «Lasciamo stare, vedi solo di non far parola ad anima viva di quanto è successo stanotte. Ci penserò io a dire due paroline ad Aris riguardo a come crescere un figlio.»

«Sì signora» rispose Davit imbarazzato.

Lorik rimise il cappuccio sulla testa della sua ragazza e tenendola sottobraccio si avviò verso l’uscita, mormorando tra sé e sé. «Aris Senza Nome, quanti disastri ancora combinerai in queste terre?»


Capitolo Primo

Thema di Taron, Impero Romano d’Oriente
Anno 1.022 d.C.

Aris non sapeva cosa l’avesse riportato a Baghesh.

Aveva avuto notizia della morte prematura del dynatoi, ma in fondo non gli importava particolarmente. Tutto ciò che voleva era trovare qualcuno che avesse bisogno dei suoi servigi in cambio di qualche follis, un pasto caldo e un tetto sotto cui dormire.

Con i curdi che premevano sul confine, la vita in città non era mai del tutto tranquilla. Per l’Impero Romano d’Oriente non esisteva la parola pace.

Fino a un paio di mesi prima era stato al soldo di un parente dei Rshtuni nel confinante Thema di Vaspurakan, uno stratiota, ma di fatto incapace di combattere. Aris gli aveva salvato la pelle dai nomadi che razziavano le sue terre.

Li chiamavano i Diavoli di Grabar, erano gruppi di armeni senza terra che si spostavano nelle regioni della Media in cerca di cibo e ricchezze, saccheggiando come meglio potevano e prendendo di mira i piccoli proprietari terrieri che avevano meno mezzi per difendersi, approfittando dell’estrema lontananza dell’autorità Imperiale.

Quella volta però avevano commesso un errore: erano venuti solo in quattro. Pensavano di farcela contro un uomo solo, anche se conoscevano la fama di Aris.

Aris, detto il Senza Nome. Si diceva fosse abile, quasi invincibile. Ma la gente tendeva sempre a ingigantire le cose.

Di sicuro non era uno stupido e aveva anche troppa esperienza per la sua età. Nonostante chi lo aveva visto in azione e chi si limitava a parlare di lui lo dipingessero come un vigoroso trentenne, in realtà Aris aveva soltanto ventitré anni.

Non che avesse l’aspetto di un uomo di trent’anni e, guardandolo da vicino in viso, era evidente che fosse molto più giovane, ma era abbastanza alto, con una muscolatura forte e tonica, sempre in allenamento, i capelli neri e ribelli che gli adombravano il volto, e i suoi occhi scuri non avevano la limpidezza di quelli di un ragazzo che aveva ancora tanto da chiedere alla vita, erano gli occhi di chi la vita l’aveva vista finire anche troppe volte.

Aris aveva la battaglia nel sangue, era convinto di essere nato solo per combattere, fatto solo per impugnare una spada. Non era nobile e non era ricco, non aveva una casa, non aveva famiglia, aveva solo la sua fama e la sua spada, e un grande intuito per il pericolo.

Perciò quel giorno sapeva esattamente dove i diavoli avrebbero attaccato.

Era inverno, i campi erano spogli e la zona era in pianura, non sarebbe stato difficile scorgere da lontano quattro individui sospetti.

Non c’erano vere e proprie strade, ma solo viuzze sterrate che costeggiavano i canali e portavano a un villaggio sperduto, abitato da alcune famiglie contadine al servizio dello stratiota, che conservavano lì i loro attrezzi e allevavano un po’ di bestiame. Nei dintorni cresceva qualche rado albero e sarebbe stato agevole nascondersi.

Aris presidiava la zona ogni giorno, guardandosi attorno, come fiutando l’aria. Si spostava a piedi per rendersi il più possibile invisibile e indossava abiti da contadino, la spada celata da un mantello.

Era lì quando arrivarono, sulla riva di uno dei canali di irrigazione, appoggiato a un tronco vecchio.

Un soffio di vento passò tra i rami e accarezzò l’erba rinsecchita e morta, poi calò un innaturale silenzio.

Il grido di un uccello squarciò il cielo, ma Aris non si mosse, come se non l’avesse sentito, anche se in realtà tutti i suoi sensi erano vigili, attenti al minimo rumore, al più piccolo movimento.

La strada era stretta e consentiva a malapena il passaggio delle bestie da soma; ai lati, i canali erano quasi prosciugati e l’acqua che era rimasta sul fondo era ricoperta da una sottile lastra di ghiaccio. Non erano praticabili, quindi era da escludere che passassero per di lì: avrebbero dovuto uscire allo scoperto sulla via.

All’inizio fu solo un leggero fruscio, un breve movimento dietro a un tronco, a cui nessuno avrebbe dato peso. Ma a lui fu sufficiente per fare una stima approssimativa della posizione degli intrusi.

I diavoli di Grabar potevano essere degli sbandanti, ma non erano totalmente sprovveduti, ed era impossibile non notare la presenza di Aris. Per quello erano rimasti in attesa, cercando di tenere la posizione, con le mani frementi, ansiose di impugnare le armi.

Aris poteva quasi vedere la condensa del loro fiato, poteva quasi sentire il loro respiro fattosi affannoso per la bramosia di sangue.

Al minimo segnale da parte del loro capo si sarebbero avventati su di lui come sciacalli su una carcassa.

Aris si staccò dalla sua posizione e scese sulla stradina. Era già riuscito a localizzarli tutti e quattro: due a sinistra e due a destra. Estrasse la spada avanzando. Dipendeva tutto dalla sua rapidità.

Prese un respiro profondo, come per caricarsi. Iniziò ad aumentare il passo, contava soprattutto sulla loro esitazione.

Quando furono in procinto di muoversi, li anticipò, questione di pochi secondi.

Prima che il loro capo impartisse gli ordini, Aris iniziò a correre a grandi falcate, e di botto scartò sulla sinistra, superando con un balzo il canale e gettandosi fra gli alberi.

Con rapidità, raggiunse il primo uomo alle spalle squarciandogli la gola, ancor prima che quello si accorgesse di essere stato scovato.

Il corpo stramazzò a terra e Aris tornò a nascondersi. Neppure il suo compagno, accorso per vedere cosa fosse successo, si accorse di lui quando la spada lo colpì al ventre, infilandosi sotto la cintura.

Il capo cercò di richiamare il terzo uomo, perché restasse nascosto, ma questi era già partito: accorse da destra e arrivò alle spalle di Aris.

Altro errore.

Aris si voltò, seguendo lo slancio della spada che andò a cozzare contro quella del nemico con un colpo secco e stridente, facendo fuggire altri uccelli appollaiati tra i rami.

I rumori attirarono i contadini che accudivano le loro bestie e che si fecero cautamente avanti a osservare la scena.

Nel frattempo Aris, con pochi scambi, aveva eliminato anche il terzo.

Con un salto, si riportò sulla strada. Ora ne restava solo uno.

Il capo dei diavoli gli balzò davanti rabbioso. Sputò per terra e ringhiò: «Ti conosciamo, Anonymos. Sei un pazzo a sfidarci, mi farò una collana con le tue budella!» e si lanciò su di lui vibrando la spada.

Aris parò il colpo e lo respinse. I suoi fendenti erano potenti e letali; l’armeno era molto forte, ma non abbastanza svelto. Aris ne approfittò e con una finta gli fece schizzare via la spada. Con un colpo alla giuntura lo fece inginocchiare a terra e gli puntò la lama alla gola.

«Mettendoti contro di noi hai firmato la tua condanna a morte. I miei fratelli sapranno cos’hai fatto e vorranno la tua testa» continuò il diavolo.

«Di certo non sarai tu a portargliela» rispose Aris sprezzante, finendolo con un taglio netto.

Nessuno di quelli che avevano assistito alla scena disse nulla. Qualcuno si fece discretamente il segno della croce, ma la notizia di quanto accaduto non tardò a diffondersi per i territori limitrofi, debitamente gonfiata, così che gli uomini uccisi da Aris erano diventati non quattro, ma addirittura venti, e giunse fino alla dimora del dynatoi di Baghesh.

Nonostante le aperte minacce, in seguito a quell’episodio non c’erano stati nuovi attacchi e quando lo stratiota aveva deciso che mantenere un mercenario che non prestava alcun servigio fosse diventato troppo oneroso, l’aveva lasciato andare.

Aris aveva avuto di che vivere per l’inizio del nuovo anno, ma ormai si avvicinava il momento di cercarsi qualche altro incarico.

Aveva viaggiato parecchio per il Thema di Vaspurakan, senza mai fermarsi troppo a lungo, trovando sempre qualcosa da fare anche per la gente semplice, a volte in cambio solo di un pasto caldo.

E alla fine si era deciso ed era tornato a Taron. Per vedere se qualcuna delle sue vecchie conoscenze fosse ancora lì, e sì, alla fine anche per vedere uno degli Aaronios di Baghesh che rimetteva l’anima a chi di dovere. Non poteva dire che la cosa gli dispiacesse.

Si fermò a una taverna, e con sua sorpresa, il vecchio Otar era ancora lì.

Ormai iniziava a fare buio, dalle finestre venivano le luci delle lanterne già accese. Entrò in silenzio facendosi un perfetto quadro della situazione con due rapide occhiate. La fiamma del focolare era calda e vivace, la legna scoppiettava di tanto in tanto, quasi a dare una scossa a quell’atmosfera spenta. Gli avventori erano sporadici, si trattava senz’altro di affezionati bevitori o pellegrini, nessuno amava uscire in serate tanto fredde, in tutto c’erano una mezza dozzina di persone.

Aris si sedette al banco.

L’oste, un uomo florido che esibiva come un trofeo il grembiule tutto unto, uscì dalla cucina con due boccali colmi di vino e li scaraventò su di un tavolo di legno ormai lurido, cosparso di briciole di pane. I due clienti si avventarono sulle coppe come se non bevessero da settimane, anche se dal colorito purpureo di naso, guance e orecchie, era chiaro che avessero già ampiamente varcato la soglia della lucidità.

Quando l’oste, tornato dietro al banco, si accorse di lui, Aris si abbassò il cappuccio.

L’uomo lo riconobbe immediatamente e sorrise con giovialità; era tanto abituato a fare quei sorrisi che gli si erano impressi sulla faccia e ormai era quasi impossibile distinguerne uno vero da uno falso. «Aris Senza Nome, era parecchio che non ti si vedeva da queste parti! Si è sentito parlare di te, sai?»

Lui non cambiò espressione, rimase serio, con lo sguardo quasi assente. «Sto cercando lavoro.»

«Lascia che si diffonda la notizia che sei qui e questo buco pidocchioso si riempirà di ricchi ancor più pidocchiosi che ti vorranno ingaggiare.»

«Anche se i diavoli di Grabar mi hanno giurato guerra?»

L’oste si rabbuiò. «Sii prudente. Forse non saresti dovuto tornare qui, tira una brutta aria, soprattutto adesso che il dynatoi è morto. Non si pensa che sia stato per cause naturali. Aveva quarantasei anni ed era in perfetta salute, non so se mi spiego.»

Aris annuì e si guardò di nuovo intorno. Forse non era stata poi una così grande idea tornare in città. «Credi che avrai dei problemi se passo la notte qui? Mi restano ancora i soldi per una stanza.»

«Sei sempre il benvenuto, incrementerai i miei affari, sai com’è, se qualcuno viene a farti la pelle, prima vorrà da bere!»

Aris gli concesse un sorriso e posò alcuni follis di bronzo sul banco.

[Continua…]


La versione completa del libro è disponibile su Amazon, in edizione cartacea e in ebook.

Lascia un Messaggio

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.